Il brevetto è stato depositato, ora si lavora al farmaco. La ricerca italiana mette a disposizione della comunità scientifica una tecnica di precisione in grado di ostacolare l’infezione del coronavirus e la sua rapida diffusione tra le cellule. Lo studio, pubblicato sulla rivista Pharmacological Research, che aprirà la strada ad un nuovo approccio terapeutico per prevenire l’infezione da Covid-19 in forma grave, è frutto della collaborazione tra l’Istituto Italiano di Tecnologia, Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna Pisa, Università degli Studi di Milano.
I tre gruppi di ricerca, guidati da Paolo Ciana dell’Università di Milano, Angelo Reggiani dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) e Vincenzo Lionetti della Scuola Superiore Sant’Anna Pisa, hanno spostato l’attenzione dalle caratteristiche del virus alla porta di ingresso che usa per entrare nelle cellule umane.

Perché questa scelta?
Quali sono state le fasi di sviluppo dello studio?
Per saperne di più abbiamo intervistato gli scienziati autori del brevetto che combatte il coronavirus e le varianti. La parola a: Angelo Reggiani dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Paolo Ciana dell’Università di Milano e Vincenzo Lionetti della Scuola Superiore Sant’Anna Pisa.

Come nasce l’idea del progetto e la collaborazione tra le 3 Istituzioni?
L’idea è nata agli inizi del primo lockdown quando il mondo, per la prima volta, faceva i conti con la malattia Covid-19. Erano giorni in cui migliaia di persone infette si ammalavano di Covid-19 e morivano lontano dalle loro famiglie, a causa di una grave insufficienza respiratoria acuta spesso associata a una disfunzione multiorgano. Questa emergenza dava fretta a tutti i ricercatori del mondo al che sospendessero le loro attività di ricerca e collaborassero per trovare subito una soluzione terapeutica.
Sapevamo che la proteina spike del beta-coronavirus Sars-CoV-2 si lega alla proteina umana ACE2 che è un importante enzima che catalizza l’idrolisi dell’angiotensina II, un ormone di natura proteica che agisce a livello cardiovascolare e renale, ed è coinvolto nell’infiammazione. Un enzima già presente sulla membrana di gran parte delle nostre cellule, i cui livelli aumentano quando invecchiamo e assumiamo alcuni farmaci. La vera sfida era quella di trovare un modo per bloccare l’uso di ACE2 da parte del coronavirus senza creare danni alla cellula e riducendo al minimo il rischio di effetti collaterali.
Da qui l’idea di utilizzare un aptamero a DNA, noto per essere molto efficace nel legare proteine in modo selettivo ma anche scarsamente immunogenico. Per testare rapidamente l’idea c’era bisogno di un approccio multidisciplinare mettendo insieme competenze diverse, utilizzando le tecnologie più avanzate e attingendo alle risorse al tempo disponibili. Per noi tre, un anestesista, un biotecnologo e un farmacologo, non è stato difficile lavorare insieme dal momento che ci conoscevamo già e avevamo le idee chiare su come procedere seppure in tempi brevi.
Lo studio
In cosa consiste lo studio e quali sono state le fasi di sviluppo?
Lo studio da noi recentemente pubblicato sulla rivista Pharmacological Research segue al deposito di una richiesta di brevetto e si tratta di un primo passo molto importante verso lo sviluppo di un farmaco. Inizialmente abbiamo cercato l’aptamero giusto tra innumerevoli potenziali candidati e alla fine abbiamo trovato due aptameri a DNA capaci di legare in modo efficace il residuo K353 di ACE2 umana tanto attratto dalla spike virale. Poi li abbiamo testati per valutare la loro affinità di legame ad ACE2 umana espressa da cellule vive.
Quindi, abbiamo verificato se il legame dell’aptamero al residuo K353 di ACE2 fosse sufficiente ad impedire l’infezione da parte del virus. Come fase finale abbiamo testato se la stessa dose di aptamero impedisse l’ingresso di altre varianti del coronavirus nella stessa cellula.
Ognuno di voi si è occupato di una fase specifica?
Lo studio e il brevetto sono stati il risultato di uno straordinario lavoro di squadra. Noi tre, almeno una volta a settimana, ci siamo riuniti e abbiamo condiviso il piano di lavoro e la strategia da seguire in ogni fase dello studio. Durante i nostri incontri abbiamo pianificato insieme ogni esperimento, analizzato e discusso i risultati e disegnato strategie alternative quando incontravamo qualche ostacolo.
Le forti restrizioni che limitavano l’accesso ai nostri laboratori ci hanno rallentato, ma non ci hanno impedito di far convergere i nostri sforzi in modo da giungere al risultato.

Avete deciso di spostare l’attenzione dalle caratteristiche del virus alla porta di ingresso che lo stesso usa per entrare nelle cellule umane. Perché e cosa vi ha portato a prendere questa direzione?
Il Sars-CoV-2 è un virus a RNA e come tale tende a mutare molto spesso. Lo testimoniano le numerose varianti del virus isolate dall’inizio di questa pandemia. Tuttavia, ad oggi sappiamo che l’uomo è ugualmente infettato da qualsiasi variante perché il coronavirus usa la stessa porta per entrare nelle cellule.
La gravità della malattia mediata da un’enorme risposta infiammatoria dipende dalla disponibilità di ACE2 a legare la spike virale, così rendendo possibile l’infezione primaria ma anche la sua diffusione all’interno dell’organismo per passaggio del virus da una cellula all’altra. Come qualsiasi virus, anche il coronavirus ha bisogno di una cellula per proliferare e aumentare la sua carica infettante.
Cosa fare per bloccare la diffusione virale? Molti ricercatori hanno deciso subito di focalizzarsi sullo sviluppo di strategie che annientano il virus. Noi, invece, abbiamo deciso di focalizzarci su ACE2 sviluppando un approccio tanto efficace quanto sicuro per renderlo non più disponibile al Sars-CoV-2 e alle sue varianti.

È un elemento molto importante in questa fase epidemiologica visto il numero crescente di mutazioni del virus, è così?
È così. Il numero crescente di mutazioni del virus potrebbe richiedere ulteriori sforzi per aggiornare l’efficacia di un farmaco anti-virale. Questo rischio non sussiste se decidiamo di agire su un bersaglio cellulare stabile come ACE2.

Quali sono state le maggiori criticità che avete incontrato?
Il dover lavorare durante il lockdown è stata la più grande criticità, ma l’abbiamo superata al meglio che potevamo.
Brevetto
La tecnica di precisione messa a punto dai 3 gruppi di ricerca è stata brevettata. Ora si lavora al farmaco.
Grazie a questo studio sarà possibile sviluppare un nuovo approccio terapeutico di precisione per prevenire l’infezione da Covid-19 in forma grave. Quali sono i vantaggi rispetto agli anticorpi monoclonali?
Gli aptameri sono molecole sintetiche strutturate come oligonucleotidi di DNA o RNA a filamento singolo che possono mimare le proprietà funzionali degli anticorpi monoclonali. A differenza di questi ultimi, gli aptameri non sono molecole immunogeniche e sono più sicuri.
Ad oggi, non è stata riportata né l’attivazione del sistema immunitario, né l’attivazione del complemento da parte degli aptameri. Non ci sono evidenze che causino effetti collaterali fuori bersaglio, come invece è descritto nel caso degli anticorpi monoclonali.
Il valore della ricerca scientifica italiana
Cosa rappresenta per voi e per la ricerca scientifica italiana e internazionale questo importante risultato?
Non è oggi che scopriamo il grande valore della ricerca scientifica italiana. La comunità scientifica internazionale, cui appartengono i ricercatori italiani, ha insegnato che la collaborazione tra i gruppi di ricerca è l’unica strada per raggiungere velocemente grandi risultati, soprattutto in momenti emergenziali come quello attuale.
Questo risultato è importante per tutti perché offre ai medici la speranza di operare con una terapia che aiuti a prevenire le forme gravi di malattia e alla gente la speranza di ricevere una cura. Noi siamo stati solo uno strumento per raggiungere un primo risultato che richiederà ulteriori sviluppi.
Ci sono ulteriori sviluppi per il futuro?
La nostra collaborazione è finalizzata ad accompagnare l’aptamero sino alla sua produzione.
Noi ci stiamo provando ma i fondi necessari per trasformare gli straordinari risultati del nostro studio in un farmaco utile per l’uomo, è davvero grande. Senza i necessari aiuti anche economici, noi da soli non ci potremo mai riuscire.
Qual è il vostro messaggio per i giovani ricercatori italiani in Italia e all’estero?
Al nostro studio hanno partecipato giovani ricercatrici e ricercatori italiani. Li invitiamo, anche operando all’estero, a continuare a inseguire i loro sogni con il lavoro. A non temere la condivisione di un’idea.
A ricercare le collaborazioni che sono sempre una grande opportunità per trovare soluzioni in tempi brevi a un problema, oltre che essere momenti di crescita personale e professionale.