Essere selezionati tra i “40 under in cancer” è un grande traguardo. Il riconoscimento di anni di studio, lavoro, sacrificio. Si tratta di una importante e bellissima iniziativa che riconosce e premia i contributi offerti nel campo della ricerca oncologica da giovani di età inferiore ai 40 anni. Tra questi, c’è anche l’italiana Eleonora Dondossola, oggi ricercatrice negli Stati Uniti.
Percorso professionale
Dopo la laurea in Biotecnologie mediche e farmaceutiche, un Master in Biotecnologie mediche molecolari e cellulari e un dottorato di ricerca in Biologia cellulare e molecolare presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, la dottoressa Dondossola nel 2011 si è trasferita, per la formazione post-dottorato, al MD Anderson Cancer Center (MDACC), uno dei più rinomati ospedali per la cura e lo studio delle neoplasie.
Nel 2017 è stata inclusa tra le più giovani 100 esperte italiane in ambito STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica). Ha pubblicato diversi articoli originali nelle migliori riviste scientifiche, come Nature Biomedical Engineering, Science Translational Medicine, PNAS, Cancer Research, Biomaterials e JNCI, e le sue ricerche sono state presentate in circa 70 conferenze.
Abbiamo avuto il piacere di intervistare la dott.ssa Eleonora Dondossola e farci raccontare la sua esperienza nella ricerca scientifica, anche come insegnante, all’estero.

Lo studio sul microambiente nella progressione e nel trattamento del tumore
Dottoressa, su cosa si concentra la sua ricerca?
Come è nato il suo amore per la ricerca?
Dopo il dottorato ha deciso di lasciare l’Italia. Perché ha scelto gli Stati Uniti?
Il mio capo in Italia aveva una collaborazione attiva con un laboratorio qui negli Stati Uniti, all’MD Anderson Cancer Center, a Houston, e ho pensato che dopo 8 anni di ricerca nel suo lab, potesse essere un buon momento per fare una esperienza diversa, per imparare cose nuove e vedere un’altra realtà. L’ MD Anderson è il miglior ospedale negli Stati Uniti per la cura del cancro, e visto il mio interesse per questo campo, non potevo chiedere di meglio.

Qual è la sfida più grande che ha dovuto affrontare finora?
Penso che questo lavoro sia una sfida continua, ti mette alla prova in ogni momento. La frustrazione è sempre dietro l’angolo perché il lavoro della scoperta scientifica spesso non funziona come te lo eri programmato. Quello che si fa sono delle ipotesi, ma in quanto tali possono essere validate (evviva!) o sconfessate (buuu!) e ci può essere dietro un lavoro di giorni o anche di settimane e mesi. Gestire queste frustrazioni non è facile, ma quando poi i tasselli riescono a incastrarsi e i risultati arrivano è una grande gioia. E questo è il motore che poi ti manda avanti. Anche la sottomissione di articoli per la pubblicazione nel processo di “peer review” e le richieste di finanziamento sono piuttosto intensi e ci vuole una buona capacità “paraurti” per continuare. Forse il mio DNA bergamasco e la conseguente testa dura hanno aiutato. Sul piano umano, lasciare l’Italia non è stato facile, sia per me e per chi ho lasciato a casa, ma ho sempre avuto un gran supporto dai miei genitori. Li chiamo ancora tutti i giorni, anche dopo 10 anni dalla mia partenza, e certe volte da posti impensabili, per far loro vivere un po’ di vita americana sebbene non abbiano mai viaggiato qui. Così facendo abbiamo preso il bus assieme, abbiamo fatto la spesa e comprato sughi italiani di dubbio gusto, bevuto un caffè a Washington sulla Embassy row accanto a tutte le ambasciate, visto il paesaggio marziano fuori dall’aereoporto di El Paso, festeggiato Thanksgiving e così via.
In base alla sua esperienza, cosa significa fare ricerca in Italia e farla all’estero, più specificatamente negli Stati Uniti?
In Italia ho lavorato in un’ottima università, e quando sono arrivata qui non ho trovato molte differenze negli strumenti messi a disposizione per la ricerca, sia circa i laboratori e i servizi. Le opportunità finanziarie però negli Stati Uniti sono maggiori, sia a livello nazionale che statale, e c’è anche un grande supporto da parte di numerose charities, che in Italia invece è limitato a poche, eccellenti realtà, e da parte di benefattori, dei filantropi che fanno donazioni private o agli Istituti di ricerca o anche ai singoli laboratori, una pratica che in Italia non è molto diffusa.
Donne e materie STEM
Qualche anno fa la dott.ssa Eleonora Dondossola è stata inclusa tra le più giovani 100 esperte italiane in ambito STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) e tra le prime 10 scienziate junior in tutto il mondo per Inspiring Science da Nature Research e Estee Lauder Companies. Sappiamo bene, però, che sull’impegno delle donne in ambito scientifico ci sono ancora, purtroppo, molti pregiudizi.

Qual è il suo messaggio alle ragazze che hanno la passione per le materie STEM?
Quando ero al liceo sono stata scoraggiata da molte persone, compresi compagni di classe e amici, a intraprendere una carriera scientifica perché era percepita come una traiettoria con ricompense e opportunità molto limitate, e che comunque sembrava più adeguata ai maschi. Ma non ho abbandonato il mio obiettivo: il mio impegno è stato molto forte, la mia famiglia mi ha sostenuto totalmente e ho proseguito con successo i miei studi. Sono molto soddisfatta delle mie decisioni e di come si è sviluppata la mia carriera, e rifarei tutto. Durante gli ultimi anni ho avuto l’opportunità di supervisionare diverse studentesse, tutte molto brave e motivate, e che mi hanno reso molto orgogliosa. Quello che direi è che le materie STEM, in tutte le loro forme, sono diventate una componente imprescindibile della nostra vita quotidiana e voi, ragazze, dovete giocare un ruolo attivo nel loro sviluppo per fare la differenza. Non credete che una carriera scientifica o tecnologica sia più adatta agli uomini, non è affatto vero! Perseguite le vostre ambizioni con passione in qualsiasi campo vi interessi.
Lei appartiene anche al network #100esperte: quanto sono importanti esperienze di questo tipo per rilanciare il ruolo delle donne nel lavoro e nella ricerca?
Il network #100esperte ha portato una ventata di novità piuttosto necessaria a supporto di un miglioramento nel panorama dell’informazione, fornendo uno strumento prezioso per dare visibilità al mondo femminile delle STEM e più recentemente anche in altre discipline. La voce delle donne come esperte è incredibilmente ancora poco interpellata. Come chiaramente illustrato sul nostro sito da Maria Luisa Villa “a spiegare ed interpretare il mondo in qualità di esperti sono quasi sempre gli uomini, cioè nel 76% dei casi, secondo i risultati mondiali del Global Media Monitoring Project 2020, la ricerca internazionale più autorevole e longeva circa la presenza delle donne nei media; in Italia il nostro contributo scende solo al 12%”. Davvero incredibile e anacronistico.
Formazione
Si occupa anche di formazione. Qual è l’aspetto dell’insegnamento che le piace di più?
Poter trasmettere la passione per lo studio e la ricerca agli studenti, in classe o in laboratorio. Quando ricevo delle domande interessanti a lezione o delle osservazioni inaspettate sugli esperimenti degli studenti che seguo in lab mi emoziono sempre. L’interazione diretta è anche una cosa che apprezzo molto. L’anno scorso ho realizzato più che mai quanto avere delle relazioni di persona con gli studenti sia importante, anche per trasmettere questa passione. So che per gli studenti è stato difficile e stressante seguire le lezioni tramite didattica a distanza, ma anche per chi insegna non è stato facile. Anche se ho cercato di incentivare la partecipazione, non è la stessa cosa e parlare ad un computer senza vedere gli interlocutori rende tutto molto asettico e non consente di avere degli scambi spontanei di opinioni.

Come è stata vissuta la pandemia negli Stati Uniti e cosa ha comportato per il suo lavoro?
Lavorando in un ospedale che tratta pazienti oncologici, la pandemia è stata presa subito molto seriamente. Per tutelarli in un momento in cui non si sapeva quasi niente di questo virus e ridurre il numero di persone circolanti nel campus, l’attività di ricerca è stata sospesa e il lab completamente chiuso per 3 mesi, con porte sigillate e disattivazione dell’accesso. Il giorno della chiusura dell’istituto è stato molto di impatto. Vedere un posto sempre pieno di gente con questa aria quasi spettrale mi ha fatto effetto. Le misure poi sono state aggiustate alle varie fasi, e adesso si lavora con qualche limitazione prevalentemente legata ai meeting in persona. In Texas in generale certe restrizioni sono cadute prima che in altri posti, per esempio l’obbligo della mascherina, che però la maggior parte della gente la porta lo stesso, e non c’è mai stato un vero lockdown. I ristoranti son sempre rimasti aperti, per esempio, facendo solo asporto per un certo periodo e poi con un graduale incremento della presenza ai tavoli. Io mi son sentita di tornare alla “normalità” verso marzo, quando i vaccini sono diventati accessibili a quasi tutti, sebbene l’adesione alla campagna vaccinale abbia raggiunto una fase di stallo verso l’estate. Adesso si stanno raggiungendo anche qui misure di obbligo più drastiche, che prima non erano ancora state implementate, come il licenziamento dal posto di lavoro in assenza di vaccino negli ospedali, università e in alcune compagnie private ed uffici statali.
Dove si vede nei prossimi anni? Sempre in America o vorrebbe avere altre esperienze in giro per il mondo, o magari in Italia?
Per ora siamo qui, ma mai dire mai 🙂