Vita da expat tra luci e ombre

Bye Bye Italia: un numero crescente di italiani lascia il Paese. 

Secondo lo studio sui movimenti migratori del 2016 dell’ Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, il numero degli italiani che nel 2016 ha notificato il trasferimento di residenza all’estero è salito di oltre l’11% a 114mila. Secondo il rapporto tuttavia, l’emigrazione ufficiale è probabilmente sottostimata: le stime reali per il 2016 variano da 125mila a 300mila.

I dati elaborati dal centro studi Idos, hanno evidenziato che nel 2017 se ne sono andati dall’Italia circa 285 mila cittadini.

Nel 2017, secondo i dati elaborati dal centro studi Idos , se ne sono andati dall’Italia circa 285 mila cittadini.

Dal Rapporto 2018 di Expat Insider , indagine annuale ed internazionale sul mondo visto attraverso gli expat di ogni nazionalità, per il focus italiano “Italians Abroad” è emerso che l’8% si è trasferito per via di una relazione; il 55% è laureato; il 35% parla eccellentemente la lingua del Paese ospitante. Anche se un italiano su quattro, il 27% per la precisione, dice di non sentirsi a casa nel Paese che lo ospita e un altro 17% sostiene che non lo sarà mai, solo un quarto pensa ad un probabile rientro in Italia. Numeri a parte, la parola “expat” racchiude tante emozioni e sentimenti. L’expat è colui che lascia il Paese di origine per diverse ragioni come il lavoro, lo studio, la ricerca di nuove opportunità, per amore o per seguire il proprio partner in vista di cambiamenti aziendali. Al di là delle ragioni per le quali si decide di partire, occorre focalizzare l’attenzione su come ci si prepara emotivamente, ma anche fisicamente, al trasferimento e al cambiamento. Non è semplice adattarsi ai nuovi ritmi, integrarsi con una cultura diversa, parlare e relazionarsi con una lingua nuova, soprattutto nella fase iniziale dove subentrano sentimenti contrastanti di amore e di odio nei confronti della nuova vita. Si parla di luna di miele, di shock culturale iniziale, di compromesso, di accettazione ma anche della difficoltà nell’adattarsi di nuovo al Paese di origine dopo essere stato espatriato per tanto tempo. Particolare attenzione meritano i “Figli di Cultura Terza” o TCK, ovvero i bambini che trascorrono una parte significativa degli anni della crescita fuori dell’ambiente culturale dei genitori. Il termine è stato presentato per la prima volta da David Pollock e Ruth Van Reken nel loro libro “Third Culture Kids: Growing Up Among Worlds”.

Qual è il percorso da seguire per fronteggiare in maniera positiva i traumi e gli imprevisti e riorganizzare la propria vita? Quanto è importante la resilienza per la propria identità nel trasferirsi all’estero?

Come sviluppare e migliorare il proprio recupero emotivo? 

Qual è l’impatto psicologico dei figli expat e il ruolo dei genitori?

The Journal of Italian Healthcare World ha intervistato Valentina Verderio psicologa clinica a Dubai. 

Dottoressa, lei è psicologa clinica con esperienza nel supporto di persone expat. Cosa significa essere expat dal punto di vista psicologico? 

E’ prima di tutto un cambiamento e dal punto di vista psicologico può avere impatti diversi che possono anche portare a problematiche emotive gravi. La vita di un expat inevitabilmente comporta delle sfide pragmatiche, chi intraprende questo tipo di percorso deve abituarsi a convivere con un perenne senso di incertezza e imparare a far fronte ai continui cambiamenti. Occorre focalizzare l’attenzione sul concetto di partenza, di separazione e di arrivo. Maturare la scelta di partire per un altro Paese significa scontrarsi con il concetto e con il vissuto di separazione: ci si separa dal contesto familiare, affettivo, sociale e culturale originario e questa scelta provoca una rottura dell’equilibrio preesistente. Questa fase costituisce un momento contraddittorio di sofferenza, unita ad aspettative rivolte verso il nuovo Paese e la nuova vita. La partenza e la separazione provocano la necessità di elaborare queste esperienze proprio come un lutto: il lutto della separazione dal gruppo originario, dai legami costruiti durante l’infanzia, dalla famiglia, dagli amici, dalle abitudini, ma anche dalla lingua e dalla cultura di appartenenza. Le condizioni nelle quali avviene, i motivi stessi della scelta intrapresa, sono importanti perché condizionano tutta la traiettoria dell’esperienza migratoria. Traiettoria che non è solo geografica, ma anche mentale ed emotiva. La scelta di partire è il punto di partenza emotivo del migrante. La partenza è anche il momento che segna il passaggio dal “prima” al “dopo”. Nel momento in cui si parte, si lascia una parte di sé per acquisirne una nuova, ancora sconosciuta. L’avere delle aspettative su ciò che si potrà trovare una volta arrivati a destinazione, sia che si abbia la convinzione di conoscere perfettamente la cultura del Paese ospitante sia che si abbia ben presente di avere a che fare con ambienti regolati da norme e consuetudini diverse da quelle del Paese natio, non elimina la possibilità di rimanere comunque sorpresi di quanto la vita all’estero possa dimostrarsi ancora più ardua. Il cambiamento dal punto di vista psicologico non è sempre chiaro e può portare, in un secondo momento, a vissuti ambivalenti ed estranianti. Ciò che ero, in condizioni diverse, muta e si trasforma acquisendo competenze nuove, affrontando sfide non previste, sopravvivendo a condizioni impervie. Questo può talvolta risultare estraniante e portare a vissuti dissociativi, stati ansiosi e/o depressione, bloccando cosi’ l’adattamento e il cammino verso nuove esperienze.

Quali sono le principali difficoltà che l’expat deve affrontare? 

Agli inconvenienti fisici si aggiungono le frustrazioni psicologiche. Nel corso del tempo l’individuo impara ad adattarsi: ciò che muta non sono le problematiche riscontrate, bensì l’atteggiamento nei confronti di queste. Da non sottovalutare gli aspetti sociali legati al trasferimento. La propria rete di sicurezza sociale si dissolve e, sebbene internet e i numerosi social network ad oggi esistenti ci permettano di rimanere in contatto con gli affetti lasciati nel Paese d’origine, ci si trova comunque costretti a inserirsi in un nuovo contesto, con la necessità di creare nuove amicizie e relazioni. Si arriva al punto in cui bisogna individuare quale di queste possa diventare più di una semplice conoscenza. La mobilità, spesso, porta a creare amicizie intense ma costruite in brevissimo tempo: ciò è dovuto alla paura di non avere sufficiente tempo per conoscersi, vivendo con il timore di essere in procinto di partire o di vivere un’altra perdita.  Tuttavia, creare legami sociali ed emotivi, seppur possano sembrare superficiali, risultano essere un aiuto per entrambi le parti al fine di superare i momenti più difficili. 

Tra i sentimenti che un expat prova c’è il senso di colpa…

Il senso di colpa è uno dei tanti sentimenti che un expat può provare una volta trasferitosi; a volte può essere la famiglia ad essere causa di questa sensazione, a volte è qualcosa che ci si autoimpone. L’aver scelto autonomamente di allontanarsi dalla propria “casa”, l’aver lasciato indietro gli affetti può gravare sulla coscienza al punto da provocare il senso di colpa. La scrittrice e consulente Linda Janssen nel 2013 in ‘The Emotionally Resilient Expat: Engage, Adapt and Thrive Across Cultures’, sottolineava come il senso di colpa sia ancora più forte per coloro che fanno parte della cosiddetta “sandwich generation”: queste persone si trovano a far fronte alle necessità dei propri figli e a quelle dei propri genitori che stanno invecchiando. Associato al senso di colpa, talvolta come sua diretta conseguenza subentra anche un senso di perdita. Man mano che passa il tempo speso in un Paese straniero, si diventa sempre più coscienti di come la vita a “casa” sia andata avanti nonostante la propria assenza. Ciò che molti expat non esternano e condividono ma rappresenta una realtà anche piuttosto frequente, è il timore di essere rifiutati dai propri affetti, dovuto spesso ad un accumulo di sentimenti da parte della famiglia e degli amici che vedono la decisione di partire come una scelta egoista. Tornare nel proprio Paese per una breve vacanza o un’occasione può dare la dimensione di ciò che si sta perdendo. Tutto ciò di cui un expat ha bisogno è il conforto dei propri affetti: per tale motivo le difficoltà emotive derivanti dal non essere supportati nella propria scelta di trasferirsi non possono e non devono essere sottovalutate.  La motivazione è sicuramente un elemento fondamentale che influisce sulla psicologia degli espatriati ma ancora piu’ importante non e’ analizzare che cosa spinga un individuo ad optare per un percorso di mobilità quanto come tale motivazione incida sul suo comportamento. Una forte motivazione personale alla base della scelta di espatriare, permette all’expat di portare a termine il proprio incarico con maggiore resilienza, affrontando le difficoltà di integrazione che tale vita comporta.  

Parlare una lingua diversa rappresenta una difficoltà? 

La barriera linguistica può compromettere una moltitudine di cose, partendo dai piccoli aspetti della vita quotidiana fino ad arrivare ad elementi che possono cambiare la vita di una persona. La barriera linguistica non e’ solamente data dal non conoscere una determinata lingua in quanto anche il background culturale e il contesto possono influire attivamente. E’ molto importante capire che differenze nella comunicazione, sia verbale che non, possono portare ad interpretazioni completamente diverse.

Qual è il consulto più comune che le viene richiesto?

I consulti sono molto vari e la ricerca di aiuto non avviene solo quando le emozioni riguardanti il trasferimento all’estero diventano ingestibili o influenzano il normale svolgimento della vita quotidiana, facendo insorgere sintomi quali attacchi di panico, sensazioni di forte estraniamento, perdita cronica di attenzione, disturbi del sonno, vissuti di tristezza e pianto, ma anche quando insorgono altre problematiche che non coinvolgono direttamente la problematica “expat” anche se a volte possono essere concatenate o esacerbate come ad esempio problemi di coppia, relazionali, lavorativi.

A proposito di problemi di coppia. Quali sono le principali azioni da adottare per evitare l’insorgere di conflitti? 

I ‘costi personali’ che un’esperienza di espatrio può implicare sono molti, circa 1 coppia su 3 divorzia in seguito all’espatriazione e il tasso di divorzio tra le coppie expat è del 49% superiore a quello tra le coppie sedentarie ma ciò non toglie che l’espatriazione può essere una formidabile occasione per reiventarsi e per rafforzare l’unione. I principali fattori di riuscita che possono essere adottati sono: Essere pienamente d’accordo sul trasferimento all’estero in modo da evitare, al sorgere delle prime difficoltà che inevitabilmente ci saranno, di incolpare l’altro per la scelta fatta. Allineare le aspettative della coppia prima di partire: sebbene la tendenza maggiore è quella di esplicitare solamente gli aspetti logistici del trasferimento mantenendo per sé le aspettative di vita, l’espatriazione è un progetto di famiglia e può avere successo solo se viene trattato come tale. Che sia fatto in autonomia o con l’aiuto di un esperto, verbalizzare le proprie attese e confrontarle con quelle de partner al fine di costruire un progetto di famiglia è essenziale per vivere al meglio l’avventura. Un altro fattore importante è quello di ricordare quali sono i principi base di una relazione sana ovvero condivisione, rispetto, supporto, equità e una ragionevole certezza. È fondamentale che le decisioni vengano prese insieme. Infine, una ragionevole certezza soprattutto per il partner che lascia tutto per seguire l’altro e che non deve essere abbandonato alle prime difficoltà. 

Qual è la posizione e le difficoltà, spesso minimizzate, che deve affrontare chi lascia tutto per accompagnare il proprio partner? 

La posizione di chi lascia tutto per accompagnare il proprio partner rispetto al partner stesso è diversa. Sono persone che nel proprio luogo di origine erano autonome e nella maggior parte dei casi svolgevano una professione che non sempre, per varie ragioni, può essere praticata nel paese ospitante. Devono affrontare non solo le difficoltà delle fasi di transizione da expat, ma anche superare delle frustrazioni e crearsi una propria routine quotidiana, nuovi rapporti sociali e svolgere delle attività alternative. A volte sono gli ideali, le aspettative o le sofferenze represse, che impediscono che si possa intraprendere questo cammino. Per non sentirsi prigionieri di decisioni prese da altri è importante considerare i fattori di riuscita spiegati nella risposta precedente.

Quali e quante sono le fasi di transizione? 

Sebbene lo shock culturale (definito come processo di integrazione culturale nel suo impatto emotivo, psicologico, comportamentale, cognitivo e fisiologico sugli individui) sia una manifestazione psicologica altamente soggettiva ed ogni individuo che ne è affetto può esserlo in maniera più o meno severa, l’antropologo Kalervo Oberg nel 1960, individuava 4 fasi :

  • Luna di miele: durante le prime settimane di permanenza, gran parte dei soggetti prova una sensazione generale di fascinazione per la nuova cultura, tralasciando i problemi e le differenze. Questa fase ha una durata che varia da pochi giorni fino a sei mesi a seconda delle circostanze. Tuttavia, quando tale approccio “vacanziero” termina, bisogna cominciare a fare i conti con le reali condizioni di vita. 
  • Periodo di crisi: allo svanire della luna di miele, si verifica solitamente un periodo di crisi. Si iniziano a vedere i problemi relativi sia alla cultura diversa che al vivere lontani da casa. A volte, anche i dettagli apparentemente più insignificanti possono rivelarsi – o solamente apparire – come delle problematiche difficili da affrontare. La lingua, la creazione di un network sociale, la lontananza dai propri cari, le differenze a livello sociale e lavorativo: tutto ciò che poteva entusiasmare inizialmente, diventa un grande ostacolo. La persona che si trova in questa fase, se non adeguatamente preparata e supportata, potrebbe non riuscire a sostenere il carico emotivo e decidere di rientrare nel Paese nativo. Solitamente, in questi casi, se non viene affrontato nella maniera corretta, anche il rientro a casa non risulta immune da problemi; 
  • Fase di aggiustamento: quando vince la decisione di fermarsi, superata la fase di crisi arriva normalmente il momento di recupero, nel quale si inizia a guardare con uno sguardo più oggettivo la nuova cultura e a provare a cambiare sé stessi invece che ciò che sta attorno. Specialmente nel caso di caratteri più curiosi, si prova a scoprire meglio la cultura nella quale ci si trova e si provano a raggiungere compromessi che permettano di affrontare meglio le sfide che ci si trova di fronte;
  • Fase di accettazione e adattamento: l’integrazione è pressoché completa; l’expat ormai accetta le consuetudini della nuova comunità e le vede come un altro modo di vivere. Il senso di ansia che l’ha accompagnato per tutte le fasi precedenti si dissolve sebbene possano esserci dei momenti di tensione. Solo una completa padronanza dei simboli alla base dei rapporti sociali permette a tale tensione di scomparire del tutto. Una completa integrazione alla nuova cultura permette non solo una completa accettazione del cibo, delle bibite, delle abitudini e delle consuetudini ma fa si che si cominci anche ad apprezzarle realmente.  

Ognuno sperimenta i vari momenti del ciclo di transizione expat in modo diverso? 

Si’, sia in termini caratteriali che contestuali. Le fasi non seguono un ordine preciso ma aiutano l’expat a prepararsi a livello psicologico cercando, nel corso del tempo, di normalizzare le emozioni e i sentimenti senza fare un piano di come dovremmo sentirci. Può accadere, quindi, che nello stesso giorno l’expat alterna sentimenti di amore e di odio ma con il passare del tempo questi sentimenti diventano meno intensi. Vorrei comunque sottolineare che chiunque uscirà dalla sua comfort zone, anche se per gradi, durata e intensità diverse, si troverà a passare le 4 fasi dello shock culturale.

Come affrontare le fasi dello shock culturale? 

A seconda della persona le fasi possono essere percepite in contemporanea oppure una può precedere l’altra senza seguire un ordine preciso. Una delle risorse migliori che si può avere è la resilienza emotiva ovvero la capacità di affrontare eventi stressanti, superarli e continuare a svilupparsi aumentando le proprie risorse con una conseguente riorganizzazione positiva della vita. Essere resilienti è requisito fondamentale per tutti gli individui ma diventa fondamentale soprattutto per coloro che nell’arco della propria vita si trovano più volte costretti a doversi riadattare a nuove realtà. Espressione di tale caratterista è la capacità di riconoscere che tutte le difficoltà che si incontrano sono eventi che possono accadere e che allo stesso modo possono essere superate.

L’ espatriazione è un progetto di famiglia. Come comportarsi con i figli? E quali sono gli errori più comuni? 

L’atteggiamento positivo e rassicurante degli adulti nei confronti dei bambini e degli adolescenti è fondamentale per accompagnarli in tutte le fasi della novità. Trasferirsi all’estero comporta l’adeguamento a uno stile di vita diverso e, specie all’inizio, le difficoltà per le famiglie con bambini non mancano. I bambini sono creature abitudinarie che non amano troppo i cambiamenti. I sentimenti contrastanti durante, prima e dopo il trasferito possono portare a commettere errori con i figli, come esempio quello di comunicare il trasferimento a ridosso della data, oppure evitare gli addii per rendere la situazione meno dolorosa. Per iniziare bene, abbiamo bisogno di chiudere bene. Un altro errore è quello di non dare spazio al bambino di parlare di ciò che lo preoccupa o lo spaventa. Uno degli strumenti efficaci che può esser utilizzato per aiutare il genitore nel gestire ed elaborare al meglio le emozioni dei figli è l’utilizzo dei libri di fiabe, in quanto per il loro elevato valore simbolico, permettono di rassicurare e infondere fiducia. Perché la fiaba possa essere utile, è importante che parli di emozioni, in questo modo diventa più facile non solo riconoscere paure e timori, ma anche condividerli. Con gli adolescenti o i preadolescenti, invece, l’annuncio del trasferimento, deve esser dato in un momento appositamente scelto dai genitori e comunicato con pazienza. L’impatto può esser ‘violento’ e può manifestare disapprovazione. Accettare la loro opposizione, incoraggiarli a parlare delle loro emozioni, modulare il proprio atteggiamento per mantenere una buona comunicazione, ascoltare ed esser empatici sono tutte azioni che aiuteranno gli adolescenti a sentirsi amati e sostenuti in questo cambiamento/prova. Inoltre è molto importante renderli partecipi e attivi del progetto familiare come ad esempio consultarli su alcune decisioni e coinvolgerli nell’organizzazione del trasloco, interessarli su quello che sarà il nuovo ambiente condividendo con loro libri, film, musica, guida dei locali di tendenza. E non solo. E’ fondamentale lasciar loro del tempo per salutare gli amici e trascorrere del tempo con loro, rassicurandoli sul fatto che le amicizie possono continuare anche a distanza.Tuttavia, se necessario è importante rivolgersi ad uno professionista esperto, psicologo-psicoterapeuta in grado di permettere al bambino o all’adolescente di elaborare e consolidare le emozioni che erano state interrotte e non espresse.  

I Figli di Cultura Terza o TCK hanno un po’ della cultura dei genitori e un po’ di quella ospitante, in sostanza vivono tra due culture. In che modo è possibile integrarle durante la crescita? 

I TCK non apparteranno al 100% a nessuna delle culture. L’atteggiamento del genitore diventa quindi fondamentale durante il processo di crescita per poterle integrare: minore sarà la pressione verso una cultura rispetto all’altra, tanta più i giovani avranno la libertà di trovare il loro modo di integrare entrambe le culture in età adulta.

Il rischio è quello di una difficoltà identitaria? 

Esiste un vero e proprio problema d’identità in quanto i Figli di Cultura Terza devono affrontare molte sfide che derivano dall’essere cresciuti in paesi, continenti e comunità diverse. Ma sebbene il bambino possa assimilare alcuni elementi da ogni cultura con cui è entrato in contatto nel corso della propria vita, il loro senso di appartenenza risiede nelle relazioni intrecciate con individui che condividono simili background. Quindi un bambino nato cosmopolita, avrà sì maggiore difficoltà nello sviluppare un’identità personale, al contrario dei suoi coetanei che risiedono stabilmente in un solo Paese, ma una volta superate le maggiori sfide con il sostegno dei propri genitori, o di professionisti o della scuola, si trasformerà in una vera e propria risorsa per il mondo del futuro.

Quali sono i vantaggi dei Figli di Cultura Terza? 

Nonostante le numerose sfide a cui vengono sottoposti sin da piccoli, se supportati dal punto di vista emotivo e di ascolto, i TCK una volta cresciuti sono in grado di estrapolare il meglio da ciò che hanno vissuto. Sono in grado di inserirsi in tutte le culture, di accettare e capire con naturalezza le differenze, di adattarsi rapidamente a qualsiasi situazione e sanno stringere legami profondi si dall’inizio molto facilmente.

Shock culturale inverso, ovvero tornare nel proprio Paese ma non sentirsi più a casa. Perché accade? 

Perché nel momento in cui si ritorna a casa ci si aspetta di ritornare in un posto che rappresenta per noi “la nostra casa” come l’abbiamo lasciata. Tornare a casa, dopo anni trascorsi all’estero può non risultare così facile come si pensa: l’ambiente che una volta si sentiva come familiare è inevitabilmente cambiato; la città ha assunto un altro aspetto, la famiglia e gli amici di una vita hanno intrapreso la propria strada. Tali cambiamenti causano una mancanza di familiarità nell’expat che in qualche modo rivive le fasi iniziali del proprio adattamento in terra straniera. 

E secondo lei è più devastante di quello iniziale? 

E’ più difficile da gestire rispetto al primo in quanto è imprevisto ed inaspettato. Nel rientrare a “casa” l’expat rivive il primo stadio dello shock culturale, la luna di miele, avverte un senso di estreneita’ che puo’ portare ad una vera e propria alienzione, alla difficoltà di ambientarsi nuovamente nella propria vita. Superata tale fase, le differenze culturali che inizialmente non aveva notato diventano sempre più evidenti e comincia ad accumulare stress da rientro. Quest’ultimo puo’ esser influenzato da diverse variabili come ad esempio un rientro volontario o involontario, rientro previsto o non previsto, eta’, precedenti esperienze di rimpatrio, durata della permanenza all’estero, grado di interazione con la cultura straniera, l’ambiente circostante al momento del rimpatrio, il livello di interazione con la cultura del Paese d’origine nel periodo di soggiorno all’estero, il grado di differenza tra la cultura ospitante e quella del Paese d’origine. Ovviamente, coloro che non avevano tenuto conto di tale stress, devono affrontare sfide ancora più ardue. 

Nel dover affrontare una realtà fatta da differenze culturali ormai a lui non più comuni, l’expat intraprende un periodo di riadattamento all’interno del proprio Paese d’origine, nel tentativo di riconquistare la stabilità a livello psicologico. Come per lo shock culturale iniziale, la durata di tali fasi è soggettiva e dipende da individuo ad individuo; ciò che accomuna tali fenomeni però è il riuscire, dopo aver superato le varie fasi, ad integrarsi o in questo caso a reintegrarsi, con la cultura del Paese.

Alla luce di quanto detto, qual è il suo messaggio? 

Lasciare le proprie sicurezze per l’ignoto può comportare moltissime sfide, sia a livello pratico che a livello psicologico, ma chiunque abbia il desiderio di mettersi alla prova e testare le proprie capacità di adattamento non deve lasciarsi spaventare: essere informati, saper riconoscere le proprie emozioni e soprattutto saperle gestire sono alla base di una vita da “expat” di successo. 

SOURCEhttps://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2018-06-20/italiani-sempre-piu-migranti-11percento-trasferimenti-estero-130541.shtml?uuid=AEvrkU9E

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